Peculiarità stilistiche de "Fontamara" di Ignazio Silone Stylistic peculiarities of "Fontamara" by Ignazio Silone | ||||
Transcultural Journal of Humanities and Social Sciences | ||||
Volume 6, Issue 1, January 2025, Page 19-42 PDF (2.14 MB) | ||||
Document Type: Original Article | ||||
DOI: 10.21608/tjhss.2025.352020.1308 | ||||
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Authors | ||||
Ayman Hussein Atteya Seif Elnasr ![]() | ||||
1Italian Dep., Faculty of Arts, Helwan University | ||||
2Department of Italian Language Faculty of Alsun Ain Shams University | ||||
Abstract | ||||
The current essay extracted from my Master theis, aims to examine several well-known arguments in ''Fontamara'' by Ignazio Silone, both from a stylistic and a linguistic point of view. On a stylistic level, Silone widely uses an ironic style and frequently resorts to the use of numerous rhetorical figures such as antithesis, simile, anacolute, antonomasia, metaphor, hyperbole, emphasis, barchiology and many others. On a linguistic level, prevails a paratactic construction of the period with a rather simple and colloquial language that reflects the ignorance in which the poor farmers of Fontamara live, while the more educated and powerful citizens express themselves in a more refined forms and also enriched by Latin quotes and words. In this essay I have kept to the bare minimum, on Silone and his era to shed more light on his motivations and formation as a writer. For this reason I has, regretfully, resigned myself for referring to the rich bibliography for further information on Silone that can be found at the end of this study. The criteria I followed is mainly inspired by an owen desire for simplicity in the presentation of the Abruzzese writer with the aim of understanding, in an authentic way, his thoughts, motivations, in particular his style, and the manner of narration adopted in the composition of Fontarma. | ||||
Keywords | ||||
Ignazio Silone; Fontamara; Style; Lexicon; Irony | ||||
Full Text | ||||
Introduzione Cenno storico su Ignazio Silone Per poter intendere bene la poetica ed il pensiero di uno scrittore, occorre capire il contesto storico e l'ambiente sociale in cui egli ebbe origine. Ignazio Silone nacque il primo di maggio 1900, a Pescina dei Marsi, un comune della provincia dell'Aquila. La sua famiglia paterna, i Tranquilli, faceva parte dei piccoli proprietari contadini locali mentre quella materna apparteneva all'ambiente degli artigiani tessili. Ecco la scheda di presentazione che l'autore ci dà degli uomini di casa, gente solida, laboriosa e coraggiosa : '' Erano uomini alti e forti, quasi solenni, i più anziani avevano grandi barbe, piedi enormi, ginocchia spalle mani poderose. Senza riguardo all'età e all'agiatezza familiare, essi continuavano ad accudire personalmente a fatiche assai dure, conducevano i carri, guidavano l'aratro, dirigevano la trebbiatura. Il bisogno di lavorare sembrava in essi necessità fisica. Erano uomini di chiesa, ma non di sacrestia; uomini d'ordine; ed erano stati allevati nell'orgoglio del coraggio davanti a qualsiasi pericolo, davanti a una bestia infuriata, a un'alluvione, a un incendio.''[1] Il 1915 è per Silone il tempo degli studi, compiuti in buona parte presso istituti privati cattolici, ma è soprattutto quello della sua prima, e fondamentale, formazione umana, che si attua in larga misura fuori dalla scuola. Nell'ambiente familiare, semplice e austero, e a contatto con la società abruzzese, borghese e, principalmente, contadina, si plasma, per adesione e per reazione, la personalità dell'autore. Il costume della "contrada" puro e severo in privato, ma rozzo e ipocrita nei pubblici rapporti: '' Badare ai fatti propri era la condizione fondamentale che veniva ribadita in ogni occasione''[2], la religiosità primitiva e intensa, le strutture sociali arretrate, che vedono contrapposte all'agiatezza e alla potenza dei pochi, la povertà sconsolata dei più: tutto pone le basi per la sua visione della vita, determina i suoi orientamenti immediati e futuri. Silone scrive più tardi: '' Vi era nella mia ribellione un punto in cui il rifiuto e l'amore coincidevano: sia i fatti che giustificavano l'indignazione, sia i motivi morali che l'esigevano, mi erano dati dalla contrada nativa.''[3] Silone era costretto ad abbandonare i suoi studi vescovili a causa del disastroso terremoto del 1915 che distrusse gran parte della Marsica uccidendo, in pochi secondi, oltre trentamila persone fra cui la madre dello scrittore, mentre sopravvisse insieme a lui un suo fratello minore di nome Romolo. Nel 1921 Silone partecipò alla fondazione del Partito Comunista Italiano come rappresentante della "Gioventù Socialista", per i dieci anni successivi Silone consuma la sua esperienza di militante comunista, animato da interesse sociale e voglia di giustizia: ''Lo stato è sempre ruberia, camorra, privilegio, e non può essere altro''[4]. Anche dopo lo scioglimento legale del partito Silone rimase in Italia e si dedicò alla stampa dell' ''Unità" e di altri giornali clandestini. Infatti è costretto poi ad entrare in clandestinità per via delle persecuzioni fasciste, ma al termine di una crisi cominciata nel 1927, si staccò definitivamente dal comunismo nel 1931, per motivi d'ordine politico e morale. Dal 1931 Silone si stablì in Svizzera, dove rimase fino all'autunno del 1944. Esilio in Svizzera Nei circa quindici anni che trascorre in Svizzera (1931-1944), Silone entra in contatto con una società più aperta, frequenta un vasto gruppo di intellettuali, per lo più esuli di altre nazioni; si unisce a gruppi di intellettuali antifascisti e antimilitaristi con i quali progetta e realizza varie iniziative culturali. Nel periodo dell’esilio Silone pubblica anche scritti di emigrati, articoli e saggi sul fascismo. La diffusione di questo materiale scatena l’indignazione dei fascisti che chiesero l’estradizione di Silone, non concessa però dalle autorità Svizzere. Durante l’esilio scrive ''Fontamara'' e poi ''Pane e Vino'', '' La scuola dei dittatori ''. Egli stesso dirà riguardo a Fontamara: '' mi fabbricai da me un villaggio, un antico e oscuro luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago del Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra la collina e la montagna. ''[5] L'INTERESSE SOCIALE I perseguitati, gli umili, gli oppressi, i '' cafoni '' marsicani, così simili agli umiliati in tutto il mondo, colpiscono in modo prepotente Silone sin dall’infanzia, tanto che successivamente darà loro voce in diverse opere. Gli umili però non subiscono e basta, è necessario sottolineare anche la loro forza di ribellione, tematica che nei suoi romanzi Silone approfondirà molto, adoperando un linguaggio adatto e proprio di quei ceti emarginati. A tale proposito lo scrittore ricorda la ''rivoluzione dei ragazzi'' ovvero un assalto alla caserma dei carabinieri a causa di un’ingiustizia da loro commessa; azione compiuta prima da parte di alcuni giovani, poi appoggiata da tutto il paese. ''Gli animi umiliati e offesi erano capaci di subire senza lamentarsi i peggiori soprusi, finchè non esplodevano in rivolte impreviste''[6]. Appena tornato in Italia nel 1944, Silone raggiunse la direzione del Partito Socialista Italiano. Fu in seguito eletto deputato della circoscrizione degli Abruzzi all'Assemblea Costituente. Nel 1948, invece, rifiutò di presentarsi alle elezioni. La sua ultima battaglia parlamentare, fu l'espropriazione del Fucino. Il 22 agosto del 1978, dopo una serie di malattie, Silone si spegne a Ginevra. Sarà seppellito a Pescina, ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, con la vista della piana del Fucino. La poetica di Silone in Fontamara Trama di Fontamara La trama del romanzo è data dai fatti che si svolgono a Fontamara; un piccolo borgo montano d'Abruzzo, nel corso di un'estate del decennio Venti –Trenta, quando ai mali antichi della miseria e della fame se ne aggiungono dei nuovi legati all'oppressione fascista. La dittatura aggrava, con il sopruso legalizzato, un destino di ingiustizie economiche e sociali a cui il paese, pare condannato e abituato. Prima di quell'estate, la vita trascorreva a Fontamara con un ritmo immobile da secoli, scandito dall'alternarsi delle stagioni e dal succedersi delle generazioni, dalle opere agricole e dai momenti dell'esistenza umana, e sempre all'insegna della povertà, in cui si dibattevano i contadini, piccoli proprietari e cafoni, impegnati in una lotta dura e ineguale con la terra avara, gravati dai debiti e divisi dalle lotte. Gli atti commessi sotto il nuovo regime fascista non sconvolgono una quiete secolare soltanto, ma, violano un "ordine naturale"[7] "Strani" sono detti quegli avvenimenti, perché del tutto insoliti per la popolazione del villaggio e soprattutto perché giustificati in modo paradossale, in quanto, benché di natura oppressiva, si compiono sotto il segno della legge. Quegli eventi toccano l'intera collettività; e sono fraudolenti o violenti, furti e beffe o imposizioni inique e rappresaglie cieche e astute. Il romanzo inizia con la sospensione dell'energia elettrica, che tuttavia potrebbe essere giustificata con il mancato pagamento delle tasse da parte dei Fontamaresi, impossibilitati a pagarle. Viene poi l'atto indegno: la deviazione del corso del ruscello che dà l'acqua a Fontamara, sottraendo il necessario alla vita degli uomini e alle colture. L'atto è avvolto da varie beffe, delle quali, parlerò più avanti, discutendo lo stile ironico adottato, largamente, da Silone in quest'opera. Lo scrittore ci presenta, poi, alcuni divieti imposti sui contadini di Fontamara: il divieto dell'emigrazione all'estero, il rigido controllo dell'emigrazione interna, la proibizione di parlare di politica in pubblico. Se questi divieti valgono per l'intero territorio nazionale, hanno un peso determinante per la vita di questi uomini poveri e semplici, che vedono l'unico sbocco alla miseria, per i giovani disoccupati, nella ricerca di un lavoro in terre più ricche, e non hanno altro sfogo alla condizione di oppressi che quello di "ragionare" tra loro. I fatti sorprendono, sconcertano una gente ignara, ai margini del mondo, abituatasi, da secoli, a diffidare dei cittadini e dei signori, ma anche fiduciosa nella legge. Essa viene a scoprire via via, meravigliata e incredula, il rovesciamento dei valori: l'illegalità autorizzata o addiritura comandata, e quelli che un tempo erano i suoi naturali difensori: il prete, l'avvocato, asserviti ai dominatori, dietro la maschera delle "buone parole". E se, colpita in ciò che per essa è vitale, passa subito alla protesta e all'azione, tuttavia con riluttanza abbandona la via delle trattative e del ricorso, per consiglio o per raccomandazione, a chi ne sa di più. Solo alla fine capisce che con l'altra parte è inutile ragionare ed è stolto, anzi pericoloso, contare sull'aiuto dei potenti. La presa di coscienza è lenta e drammatica, anche se non mancano le reazioni immediate, subito però rintuzzate dall'astuzia degli oppressori. Significativo l'episodio che vede protagoniste le donne, le prime, nella loro istintività, a prendere l'iniziativa. Le donne credono che ragione e diritto vadano d'accordo e indotte da questa persuasione, corrono al capoluogo per chiedere giustizia a chi governa il comune. Dopo un'estenuante sforzo per le vie del borgo, sotto l'ardente sole dell'estate, alla ricerca del "sindaco" introvabile, tra l'accoglienza beffarda dei cittadini pronti a burlarsi della loro ignoranza, sporcizia e povertà, (come vedremo più avanti nel discorso relativo all'ironia diffusa intensamente in "Fontamara") riescono, alla fine, a scambiare due parole con il podestà (L'Impresario) impaziente e infastidito, che ha la testa in ben altri affari. Si interpone l'avvocato don Circostanza, che siede in quel giorno, alla mensa dell'Impresario, e dall'azione conciliativa viene fuori quel capolavoro della transizione dei ''tre quarti e tre quarti'', fatto per imbrogliare gli ignoranti. A loro volta gli uomini, quando arrivano i tecnici per deviare il canale, si dispongono sulle due rive per impedire l'operazione. Allontanati dalla forza pubblica, non smettono di protestare sempre più clamorosamente, aiutati dalle donne imprecanti. Qui alla minaccia si contrappone la proposta della trattativa, auspice il soprannominato don Circostanza, e tutto si conclude con un nuovo imbroglio, che lascia immutato il provvedimento. A questo punto non rimane che la ribellione, la lotta senza quartiere. C'è chi, disperato, si piega sotto il peso degli eventi e si toglie la vita: è il caso di Teofilo, il sagrestano; c'è chi fugge per farsi gli affari suoi, ed è il caso di Berardo, ma anche fuori dal paese non trova un ambiente più favorevole e matura l'idea del sacrificio per la causa comune. Fontamara è ormai scossa dal fremito della rivolta, che si esprime in un foglio a stampa dal titolo "Che fare?". Il giornaletto dei fontamaresi non rimane a lungo perché gli autori di quella coraggiosa iniziativa sono puniti con la morte. Pochissimi, tra cui Giuvà e i suoi, riescono a scampare alla strage. Stile La retorica – dal latino rhetorica, traduzione del Greco rhētorikē - è l'arte del parlare e dello scrivere secondo regole stabilite per la prima volta nell'antica Grecia e poi sviluppatesi successivamente nella cultura romana, medievale e umanistica. In realtà la retorica è stata per secoli un elemento fondamentale dell'educazione dell'uomo. Infatti è stata concepita come arte di persuadere, di convincere: un obiettivo di primaria importanza per l'oratore, l'uomo politico, l'avvocato, il diplomatico e, in generale chi ha una vita pubblica. Al tempo stesso la retorica è stata considerata come "arte del bello scrivere", essenziale quindi per prosatori e poeti. Secondo i Greci e i Romani la retorica ha tre fini: docēre "insegnare", cioè fornire argomenti razionalmente validi; movēre "muovere i sentimenti"; delectare "dare diletto" a chi ascolta. Alla base della retorica tradizionale (dall'antichità al Settecento) ci sono le figure, vale a dire le particolari forme espressive usate dai poeti e dai prosatori per innalzare lo stile, per rendere "diverso", il loro dire rispetto al parlare di ogni giorno. Le figure sono veramente degli schemi universali presenti nella mente dell'uomo: si ammette, per esempio, che la metafora non sia soltanto una figura del linguaggio, ma una forma di pensiero, uno strumento della nostra conoscenza che ci permette di ordinare le nostre esperienze [8]. Al tempo stesso le figure si ritrovano anche nel parlare di ogni giorno: ad ogni momento, senza accorgercene facciamo uso di metafore, di metonimie, di iperboli, di ironia ecc. Dal canto suo, Du Marsais, uno studioso francese del Settecento, disse argutamente che si usano più figure retoriche in un giorno di mercato che in tanti anni di ricerche sulla retorica. Passando all'ironia, come figura logica, direi che essa consiste nell'affermare una cosa intendendo dire l'opposto: il lettore, cioè deve operare una manipolazione semantica per decifrare correttamente il messaggio, aiutato in ciò dal contesto e dalla particolare intonazione del discorso. È facile, ad esempio, capire l'ironia celata in questi versi di Giusti: Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, / in tutt'altre faccende affaccendato, / a questa roba è morto e sotterrato[9] . L'ironia – afferma Sabatini[10] – è "la presa in giro" di qualcuno"; è un tipo di discorso che intende attaccare o colpire un avversario ma in maniera velata. Per esempio se di una persona si vuole dire che è "buona a nulla", è possibile esprimere tale pensiero in modo ironico dicendo: "che bell'ingegno!" o " è un ingegno senza confronti"; oppure "intelligente come quello lì se ne trovano pochi" e anche " è l'intelligenza del secolo". Da tutti questi esempi sopraccitati si intende ovviamente il contrario. E appunto qui risiede il ruolo fondamentale dell'ironia. L'ironia si divide in due tipi: ironia leggera e in questo caso è meglio chiamarla umorismo (che si manifesta nelle "battutte di spirito"; mentre quando è molto dura, la chiamiamo sarcasmo perché esprime amarezza e forte dispiacere. Il tono rappresenta anche un elemento essenziale per l'ironia come per esempio: "ma bravo!" – "un vero signore, quello la'!" con tono di rimprovero. A tale proposito, Bruno Migliorini[11] sostiene che l'intonazione della voce mette in risalto il colore della nostra espressione quando diciamo per esempio a un ragazzo che conduce una vita disordinata, sregolata: "bravo! bravo! continua così!", volendo invece significare "fai malissimo: smettila". Migliorini aggiunge anche che le parole di lode che vengono impiegate in alcune occasioni e con una data intonazione di voce esprimono nettamente il contrario e qui esiste l'ironia essiva, si compiono sotto il loniana Frasi ironiche ricorrono continuamente nel linguaggio quotidiano come per esempio: "come sei furbo!"; che "intelligenza!"; "che genio!"; ecc…e non sono rare neanche in letteratura nella quale gli scrittori possono ottenere con questo mezzo stilistico, l'ironia, effetti potenti. L'ironia può avere varie forme e in questa sede, Garavelli[12] sottolinea che essa può apparire sotto la forma di uno "sgonfiamento" dell'enfasi, del prendersi sul serio, e indurci a ridimensionare il mondo e noi stessi. Ciò può essere realizzato tramite molte vie: con battute superficiali e futili, o con riflessioni amare, satiriche, sarcastiche, o con quello che oggi viene chiamato "umorismo demenziale". Garavelli aggiunge anche che l'ironia può condire questo o quel modo, ma non si identifica con nessuno, perché, nella sua essenza originaria, è mescolanza di riso e di pianto. Ironia sferzante contro il regime fascista La storia dei Fontamaresi vuol essere la denuncia dolorosa e forte di una miseria e di soprusi sofferti dai poveri cafoni marsicani, in genere, meridionali, sotto il fascismo. Ma il significato politico e sociale di "Fontamara" può essere più vasto: vi si potrebbe vedere l'urto fra le comunità contadine più povere e la politica. Non è meno importante il significato morale che esiste in modo implicito nel risentimento dell'autore di fronte all'iniquità, risentimento che si manifesta nelle forme della pena e del sarcasmo, diventa esplicito nel tono epico che via via assume il racconto: da esso esce l'immagine di un'umanità primitiva e rozza ma ricca di virtù eroiche. Il messaggio di "Fontamara", ricco di significati, è calato in un contesto storico e ambientale: il ventennio fascista e la realtà italiana, dell'Abruzzo in particolare. Del fascismo è evidenziato l'aspetto prepotente, violento e beffardo, d'arbitrio legalizzato, che sfrutta, per estendersi e radicarsi, la convivenza dei pavidi borghesi e dei popolani più vili, disponibili a qualsiasi avventura. L'ironia in "Fontamara" occupa una parte fondamentale e si considera il modo con cui Silone esprime la contrapposizione tra l'ingenuità e la spontaneita' dei fontamaresi e l'astuzia e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi e l'intenzione di ingannare da parte dei secondi. L'ironia aspra, dolorosa, spesso in tono grottesco, nasce dalla stessa natura dei rapporti umani stravolti. Silone scelse, per "Fontamara", uno stile peculiare fondato sulla chiarezza di esposizione con lo scopo di salvare il romanzo dalle secche della scrittura o dalla palude di una testimonianza selvaggia. La rappresentazione del destino di "Fontamara", dello status atavico e della nuova realtà politica, viene perciò alternata, nella lezione di questo realismo, dalle voci narranti che riflettono vivacemente la vicenda con tono popolaresco – talora comico – ispirato dalla tradizione populista e dal modo contadino di raccontare e chiamare le cose[13] . Sin dalle prime righe di "Fontamara", parlando della questione della luce, intravediamo l'ironia che sarà, d'ora in poi, lo stile adottato da Silone per tutto il romanzo, arma con la quale lo scrittore combatte contro il regime fascista: ''Il primo di giugno dell'anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l'olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera.'' [14] Notiamo qui che Silone prepara la via alla sua ironia ricorrendo alla concentrazione sui numeri come: "il primo – il due – il tre, il quattro" per indicare la lunghezza del tempo in cui Fontamara è rimasta senza luce. Lo scrittore ci informa, dopo, che il suo paese "continuò a rimanere senza luce e si abituò al chiaro di luna". Tutto ciò è una prefazione alla sua ironia sferzante che verrà subito dopo; "Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l'olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera". Non si può anche trascurare l'antitesi tra "un centinaio di anni" e "una sera" che contribuisce ad incrementare la dose ironica. E ancora: ''La luce doveva essere tagliata al primo gennaio. Poi al primo marzo. Poi al primo maggio. Poi si disse: "Non sarà più tolta. Sembra che la regina sia contraria. Vedrete che non sarà più tolta". E al primo giugno fu tagliata''.[15] l'ironia qui parte dipendendo dalla ripetizione ben nota nell'esempio sopraccitato come: "al primo gennaio- al primo marzo – al primo maggio – al primo giugno". Tale ripetizione, come ribadisce Garavelli, rende il discorso più di ironico: '' si può essere ironici "facendo l'eco" a un altro discorso. Quando si ripetono con questo intento parole proprie si fa dell'autoironia. Se si tratta di enunciati altrui, si può andare dall'ironia al sarcasmo, alla deformazione comica ecc."[16]. Silone tratta ironicamente anche l'argomento delle numerosissime tasse imposte sui cafoni fontamaresi da parte del governo fascista: ''Il punto da chiarire era un altro: su che cosa fosse ancora possibile mettere una nuova tassa. Ognuno di noi, per proprio conto, pensava a questo e con lo sguardo interrogava gli altri. Ma nessuno sapeva. Forse sul chiaro di luna?'' [17] L'opposizione tra i due mondi di Fontamara: cittadini e contadini viene trattata in maniera beffarda da Silone: "Parliamo e non ci capiamo", disse scoraggiato. "Parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua". Questo era vero, e chi non lo sa? Un cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi. Quando lui parlava era un cittadino, non poteva cessare di essere un cittadino, non poteva parlare che da cittadino. Ma noi eravamo cafoni. Noi capivamo tutto da cafoni, cioè a modo nostro. Migliaia di volte, nella mia vita, ho fatto questa osservazione: cittadini e cafoni sono due cose differenti.''[18] Nel brano sopraccitato, lo scrittore si vale anche dell'antitesi per dare adito, accesso alla sua ironia malinconica: "parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua". "cittadini e cafoni sono due cose differenti". A tale proposito Giuliana Rigobello afferma che l'ironia di Silone è uno dei suoi motivi più continui e piu' validi.[19] Ecco un altro passo in cui l'autore continua a prendere in giro la situazione sociale misera dei contadini analfabeti di "Fontamara" durante il periodo fascista. Silone qui ricorre ad uno stile ironico per sottolineare la propria idea partendo sempre dall'opposizione tra cittadino e contadino: " In gioventù sono stato in Argentina, nella Pampa; parlavo con cafoni di tutte le razze, dagli spagnuoli agli indii, e ci capivamo come se fossimo stati a Fontamara; ma con un italiano che veniva dalla città, ogni domenica mandato dal consolato, parlavamo e non ci capivamo; anzi, spesso capivamo il contrario di quello che ci diceva. Lì, nella nostra fazenda, c'era perfino un portoghese sordomuto, un peone, un cafone di laggiù: ebbene, ci capivamo senza parlare. Ma con quell'italiano del consolato non c'erano cristi.'' [20]. In questo passo lo scrittore attira l'attenzione con questa frase: "c'era perfino un portoghese sordomuto, un peone, un cafone di laggiù: ebbene ci capivamo senza parlare" che apre la strada alla sua ironia amara: cittadini e cafoni non si capiscono malgrado che questi parlino in un italiano - come sottolinea Luce D'Eramo[21] – le cui strutture linguistiche non sono del tutto estranee al popolo, cioè in una lingua non letteraria che il popolo può far propria appena sia in grado d'impararla ed usarla. Parlando delle gerarchie nella società italiana di quel periodo fascista, Silone raggiunge il culmine della sua ironia contro le autorità dittatoriali che dominavano l'Italia. Tale stile sarcastico appare chiaramente in questa scena ove si fa una classificazione dei ceti sociali: ''Immagina. Come può un cafone, un povero cafone, un povero verme della terra conoscere tutti questi fatti? Non può. Ma una cosa sono i fatti, un'altra è chi comanda. I fatti cambiano ogni giorno, chi comanda è sempre quello. L'autorità è sempre quella" "E le gerarchie?" chiese il forestiero. Ma allora noi ancora non sapevamo che cosa significasse la strana parola. Il cittadino dovette ripetercela varie volte e con altri termini. E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: "In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. "Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. "Poi vengono le guardie del principe. "Poi vengono i cani delle guardie del principe. "Poi, nulla. "Poi, ancora nulla. "Poi, ancora nulla. "Poi vengono i cafoni. "E si può dire ch'è finito" "Ma le autorità dove le metti?" chiese ancora più irritato il forestiero. "Le autorità" intervenne a spiegare Ponzio Pilato "si dividono tra il terzo e il quarto posto. Secondo la paga.'' [22] L'ironia di Silone, in questo passo, si apporfitta al massimo dell'anafora sia all'inizio: "un povero cafone, un povero verme ecc.", sia per tutto il brano in cui la congiunzione "poi" si ripete per sette volte all'inizio di ogni frase. L'uso eccessivo dell'anafora in "poi" insieme al significato che abbraccia attribuisce al brano maggior efficacia rendendolo come uno schiaffo sulla faccia del fascismo. E qui ritengo opportuno ricordare l'opinione di Virdia[23] che dice: "Fontamara è il romanzo dell'antifascismo eroico, battagliero dei primi anni di dittatura". La marcia delle donne sul capoluogo richiama l'attenzione verso un'altra realtà dolorosa ricercata da Silone; che lo stacco supera i limiti del concetto antico come il mondo campagna – città per operare persino tra il mondo contadino e quello operaio della classe inferiore. Tale realtà è stata presentata ironicamente in questo incontro con gli operai della fornace dell'Impresario: ''Dopo molti giri, arrivammo alla fornace. Trovammo una ventina di operai e alcuni carrettieri che caricavano i mattoni, i quali interruppero il lavoro e ci accolsero con grida di stupore. "Da dove venite? Avete fatto sciopero? Quale sciopero? [....] Dov'è il vostro padrone? Rispondemmo in varie "Deve farci giustizia''. Giustizia? Ah, ah, ah" gli operai risposero con una risata. Quanto costa al chilo la giustizia? ci chiesero.'' [24] Silone qui si serve anche dell'onomatopea in: "Ah, ah, ah" per raffigurare l'ironia degli operai contro le donne contadine di Fontamara. E l'interrogazione scherzosa e giocosa degli operai: "Quanto costa al chilo la giustizia?" rende più intensa e più penosa l'ironia sferrata contro le fontamaresi. Le sofferenze e la miseria dei cafoni fontamaresi sono sempre causate dai governi che tenevano in mano il potere. L'ironia del seguente brano ce lo dimostra in modo assai palese e indiscutibile: "Ogni Governo è sempre composto di ladri" egli ragionava. "Per i cafoni è meglio, naturalmente, che il Governo sia composto di un solo ladro piuttosto che di cinquecento. Perché un gran ladro, per quanto grande sia, mangia sempre meno di cinquecento ladri, piccoli e affamati.'' [25] Nella citazione precedente, Silone si giova delle enumerazioni: "un solo ladro – cinquecento ladri" e delle antitesi: "mangia sempre meno – piccoli e affamati" per creare la sua ironia rafforzata dagli aggettivi: "ladro – affamato" che si considerano una dura offesa e accusa contro i fascisti. Altre figure retoriche: Fontamara e' stracolma di numerose figure retoriche che contribuiscono ad incrementare la dose ironica nel romanzo. Fra queste figure citiamo alcuni esempi: Antitesi: " parliamo e non ci capiamo. ", disse scoraggiato. "Parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua'', "Un cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi."." Fontamara, p. 45." Nel brano sopraccitato, lo scrittore si vale dell'antitesi per dare adito alla sua ironia malinconica:"Parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua.", " Un cittadino e un cafone", il che mette in risalto il distacco linguistico e ma soprattuto sociale fra le due classi sociali pur essendo entrambe di origine italiana. " Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l'olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna basto' una sera." (Fontamara., p. 37) . L'antitesi , qui, esiste fra " un centinaio di anni" e " una sera", Tale figura e' intesa dall'autore per chiarire la sofferenza e la miseria in cui viveva Fontamara per secoli senza luce elettrica che viene tolta in una sera. "Ogni Governo è sempre composto di ladri " egli ragionava. "Per i cafoni è meglio, naturalmente, che il Governo sia composto di un solo ladro piuttosto che di cinquecento. Perché un gran ladro, per quanto grande sia, mangia sempre meno di cinquecento ladri, piccoli e affamati''. ( Fontamara, p. 144.) Nella citazione precedente, Le sofferenze e la miseria dei cafoni fontamaresi sono sempre causate dai governi che tenevano in mano il potere. L'ironia viene dimostrata in modo assai palese e indiscutibile , Silone si giova delle enumerazioni: "un solo ladro – cinquecento ladri" e delle antitesi: " per quanto grande sia mangia sempre meno – piccoli e affamati" per creare la sua ironia rafforzata dagli aggettivi: "ladro – affamato" che si considerano una dura offesa e accusa contro i fascisti. " I militi erano venuti a Fontamara e avevano oltraggiato varie donne; questa era stata una prepotenza odiosa, pero' in se' assai comprensibile. Ma l'avevano fatta in nome della legge e alla presenza di un commissario di polizia, e questo non era comprensibile." ( Fontamara, p. 194.) . Chiara, qui, e' l'antitesi a cui ricorre lo scrittore per criticare il regime fascista e i suoi soprusi esercitati perfino sulle donne di Fontamara le quali rappresentano tutte le donne cafoni non solo in Marsica, ma anche in tutta l'Italia. Anafora: "La luce doveva essere tagliata al primo di gennaio, poi al primo di marzo, poi al primo di maggio. Poi si disse non sara' piu' tolta." (Fonatmara, p. 39.) L'anafora che e' la ripetizione di una o piu parole all'inizio di enunciati successivi, e' ben nota nell'esempio sopraccitato: "poi al primo marzo, poi al primo maggio. Poi si disse ... '' . Tale ripetizione, come ribadisce Garavelli, rende il discorso piu' ironico: '' si puo' essere ironici '' facendo l'eco ad un altro discorso. Quando, invece, si ripentono con questo intento parole proprie si fa dell'autoironia."[26] '' immagina, come puo' un cafone, un povero cafone, un povero verme della terra conoscere tutti questi fatti? ". (Fontamara, p. 53.) L'anafora qui consiste nella ripetizione del sostantivo ''cafone'' e l'aggettivo povero il quale mette in risalto le condizioni misere dei contadini di Fontamara e come vengono visti dagli altri cittadini. "In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. "Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. "Poi vengono le guardie del principe. "Poi vengono i cani delle guardie del principe. "Poi, nulla. "Poi, ancora nulla. "Poi, ancora nulla. "Poi vengono i cafoni. " ( Fontamara, pp. 53 – 54.). Qui lo scrittore si approfitta al massimo dell'anafora dove si ripete la congiunzione ''poi'' per sette volte all'inizio di ogni frase. L'uso eccessivo dell'anafora in ''poi'' insieme al significato che abbraccia, attribuisce al brano precedente maggior efficaccia rendendolo come uno schiaffo sulla faccia del regime fascista che aveva sottomesso ed umiliato i cafoni al punto che non vengono considerati da nessuna parte, nemmeno sono uguali ai cani delle guardie del principe. '' Quel diavolo! quel diavolo!'', mormorava tra se' sottovoce.'' Nell'esempio sopraccitato, l'autore ricorre anche all'anafora nella ripetizione di '' Quel diavolo! quel diavolo! '' metterere in risalto la natura diabolica e l'astutzia del personaggio dell'Impresario che si e' impadronito di tutto, e per dare una forte intensita' espressiva alla sua ironia che verra' dopo. le abitudini dei fontamaresi sono espresse attraverso le ripetizioni: la vecchia Maria Rosa parlando del destino dei Viola disse mentre si lamentava della morte del figlio Berardo: " Essi non sanno stare a letto. Essi non sanno stare vicino al camino. Essi non sanno stare sulle sedie". Iperbole: Nel romanzo di ''Fontamara'' , Silone usa anche l'iperbole, che e' un'espressione esagerata per eccesso o per difetto, per chiarire una delle prese in giro da parte dei fascisti contro i cafoni fontamaresi. '' A raccontare tutte le burle da essi giocateci negli ultimi anni non basterebbe una giornata … '' ( Fontamara, p. 98) Qui l'autore ricorre all'iperbole nell'espressione '' non basterebbe una giornata ''. e cio ci fa capire fino a che punto erano assai troppi ed eccessivi i soprusi e il disprezzo del regime per i fontamaresi. ''Quello ha fatto veramente il patto col diavolo.'' , ci disse. Nessuna legge lo trattiene. Se resta qui ancora un paio di anni ci mangera' vivi, con le nostre case,la nostra terra, i nostri alberi, la nostra montagna." ( Fontamara, p. 80.) Abbiamo qui numerose iperboli usate da Silone, nel brano sopraccitato per dimostrare la natura e la prepotenza di uno dei personaggi del romanzo, quello dell'Impresario: la prima descrizione che l’autore fa di lui ci fornisce un'immagine malvagia di lui, visto come il diavolo che da tutto riesce a trarre ricchezza. ''Chiacchiere a parte, non c’era dubbio che quell'uomo straordinario avesse trovato l'America nella nostra contrada. Egli aveva trovato la ricetta per trasformare in oro anche le spine. '' Qualcuno affermò ch’egli avesse venduto l'anima al Diavolo in cambio della ricchezza, e forse aveva ragione." (Fontamara., p. 73.) L'iperbole qui e' tutto il periodo precedente ed e' cosi chiaro l'uso di tale figura che serve molto con l'esagerazione a rendere evidente l'ironia dello scrittore. Similitudine: La similtudine che e' un confronto, un paragone introdotto da come, simile a, piu' di, sembra ecc. , e' assai frequente e diffusa nel romanzo di Fontamara e ha un valore molto importante negli eventi del romanzo in quanto aiuta a rafforzare il tono sherzoso ed ironico dello scrittore come nei seguenti esempi:: '' In quel momento anche la strana folla del capoluogo si apri' e ne venne avanti, spinto a furia di calci e di sassate, il nuovo curato, nella forma di un vecchio asino, adorno di carte colorate come paramenti sacri.'' (Fontamara, p. 58) '' Allora gli impiegati ripresero a ridere come scemi.'' (Fontamara, p. 65) '' Intanto i commensali ubriachi si erano raccolti sul balcone della villa. Tra essi adesso spiccava l'avvocato Don Circostanza, col cappello a melone e il naso poroso a spugna, le orecchie a ventola, la pancia al trerzo stadio.'' (Fontamara, p. 115.) Nel brano precedente, risulta chiaro il ricorso di di Silone alla similitudine per realizzare il suo fine ironico e ridicolo. E in questa sede Rigobello afferma : '' Fra gli stilemi che ricorrono con maggior frequenza segnaliamo ''...'', le similitudini desunte dall'esperienza quotidiana dei fontamaresi.[27] '' coi padroni non si ragiona, questa e' la mia regola.Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone e' un asino che ragiona. ( Fontamara, p. 138.) La similitudine usata qui e' un mezzo che contribuisce a sostenere lo stile ironico dell'autore. '' piu' che una bandiera, il nostro stendardo sembrava l'albero di un bastimento agitato dalla tempesta.'' ( Fontamara, p. 148.) Metafora: '' Ai piedi della collina, i campi e gli orti abbandonati dal ruscello, assumevano ogni giorno un aspetto desolante.'' (Fontamara, p. 223.) Qui lo scrittore si vale della metafora che e' ''una sostituzione di una parola con un'altra il cui senso, letterale ha una qualche somiglianza col senso letterale della parola sostituita''[28] come in '' Ai piedi della collina, i campi e gli orti abbandonati dal ruscello''. Tale figura retorica contribuisce a raffigurare la scena desolante dei campi e degli orti di Fontamara a causa della mancanza dell'acqua. '' Ma hanno la copula'' io obiettavo. '' forse sono chiese.'' '' Si, ma con un altro Dio, rispondeva Berardo ridendo. Il vero Dio che ora effettivamente comanda sulla terra il Denaro. E comanda su tutti, anche sui preti ... '' (Fontamara, pp. 246 – 247.) Silone continua, qui, a far uso della metafora come in '' Il vero Dio che ora effettivamente comanda sulla terra il Denaro'' . Tale uso serve a rendere la sua critica molto ironica, dura e beffarda. '' Qualcuno affermò ch'egli avesse venduto l'anima al Diavolo in cambio della ricchezza, e forse aveva ragione.". ( Fontamara, p. 73.) Nell'esempio precedente e' chiara la metafora: '' egli avesse venduto l'anima al Diavolo'', alla quale ricorre l'autore per dare peso e valore al suo stile, affermando il carattere diabolico e cattivo del personaggio descritto. '' Quando le stranezze cominciano, chi le piu'? '', fu il mio commento.'' ( Fontamara, p. 71.) L'esempio precedente e' quasi tutto una metafora. Cio e' una prova reale della diffusione delle figure retoriche nell'opera di '' Fontamara''. Antonomasia: '' L'antonomasia e' la sostituzione di un nome proprio con un nome comune o, inversamente, di un nome comune con un nome proprio. In particolare si ha l'antonomasia quando si indica una persona celebre non con il suo nome proprio, ma con il suo appellativo piu' noto''. [29] In '' Fontamara'' questa figura appare chiaramente come elemento molto importante che serve a fare raggiugere il messaggio voluto dall'autore al lettore: '' La polizia aveva cercato lo sconosciuto in citta', ma vi e' un solo cittadino sconosciuto? Ogni cittadino e' tesserato, timberato,catalogato... ''. ( Fontamara, p. 273.) '' Un forestiero con la bicicletta. Era difficile dire chi potesse essere, a quell'ora. Ci consultammo tra noi, con lo sguardo. Era veramente strano. Quello della luce non era. Quello del comune nemmeno. Quello della pretura nemmeno.''. (Fontamara, p. 41.) '' Se rifaccio famiglia '' , essa rispondeva, '' perdo la pensione di vedova di Eroe. Cosi e' la legge. Ormai sono costretta a rimanere vedova.'' ( Fontamara, p. 42.) '' I due Viaggiatori Celesti videro in tutti i villaggi la tessa cosa, e che altro potevano vedere? '' . ( Fontamara, p. 51.) '' A un certo momento si accese una disputa violenta sull'Onnipotente''.) Fontamara, p. 84.) Enfasi: L'enfasi e' '' sottolineatura '', intensificazione espressiva ottenuta collocando in una posizione di particolare rilievo una o piu' parole all'interno di una proposizione , oppure una proposizione all'interno di una frase.''[30] In '' Fontamara '' non manca anche l'enfasi come figura retorica che contibuisce a servire lo stile ironico desiderato dall'autore. '' Nulla di strano insomma che lo Sconosciuto, il solito Sconosciuto, fosse un cafone" ( Fontamara, p. 273.) '' L'America e' dappertutto '' , aveva ribattuto l'Impresario a quelli che gli avevano riferito la discussione. '' E' dappertutto basta saperla vedere. '' ( Fontamara, p. 72.) ''L'acqua cel'ha data Iddio '', dichiaro' anche Marietta. (Fontamara, p. 74.) '' Tu mi ha trascinato qui'', gridava. Io non volevo venire, io avevo da fare a casa, io non ho tempo da perdere fuori di casa, ... '' ( Fontamara, pp. 75 -76.) '' E' l'autorita' '' , gridava Marietta. '' Solo l'autorita' che puo' decidere '' ( Fontamara, p. 76.) '' Il resto l'avremo stasera a casa '', ripeteva la Limona. ( Fontamara, p. 76.) Anacoluto: '' L'Anacoluto e' susseguirsi, in uno stesso enunciato, di due diverse costruzioni, di cui la prima non si lega sintatticamente con la seconda.''. L'anacoluto rappresenta quindi una frattura nell'ordine sintattico della frase. ''[31] Il romanzo di '' Fontamara e' stracolmo di questa figura retorica che e' molto utile per abbellire lo stile di Silone, rendenolo piu' ironico e piu' comico. '' Anche a Fontamara si riseppe quella scoperta e per un pezzo si parlo' di quel fatto nuovo e bizzarro che nessuno, neppure il generale Baldissera, riusciva a capire '' . ( Fontamara, p. 72.) '' Per spiegare quel rapido insolito arricchimento, di cui tutta la contrada parlava, qualcuno allora disse ... ''. ( Fontamara, p. 72.) '' Migliaia di volte, nella mia vita, ho fatto questa osservazione: cittadini e cafoni sono due cose differenti. ''. ( Fontamara, p. 45.) '' In quel mentre la serva, che era rimasta con noi, in vendetta, segnalo' la venuta dell'Impresario '. ( Fontamara, p. 85.) '' successe poi, quando nessuno non se lo aspettava, che lui non volle piu' pagarci l'abituale consolazione.''( Fontamara, p. 91.) '' Don Pelino e don Circostanza, a varie riprese, furono visti discutere con l'architetto.'' ( Fontamara, p. 217.) Brachilogia: '' La brachilogia e' una forma di brevita' espressiva consistente nel sopprimere un elemento del discorso che risulta comune a due o piu' proposizione.''[32] La barchilogia e' una delle figure retoriche usate da Silone al fine di garantire allo stile vivacita' , vitalita', e dinamicita' : '' Ogni cittadino e' tesserato, catalogato, timberato, conosciuto, ma il caone? Chi conosce il cafone? '' . ( Fontamara, p. 273.) Come osserviamo, nel brano precedente, l'ausiliare ''essere'' non viene ripetuto. Aspetti linguistici: Lo stile linguistico di Silone è una commistione di componenti vari: "il dialetto abruzzese, la sua lingua madre, il latino delle funzioni religiose, l"italiano dei resoconti nell"attività politica. I viaggi all'estero, la lunga permanenza in Svizzera e le letture dei classici stranieri in lingua originale hanno poi dato "alla lingua italiana di Silone la sua struttura definitivamente europea. [33]"
Nella prefazione al suo ramanzo, Silone va a precisare lo strumento linguistico da lui adottato nel raccontare la vicenda di Fontamara : oltre alla miseria e alle difficili condizioni di vita che caratterizzano il vivere della gente cafona, lo scrittore ci mostra l’estraneità della lingua italiana alla cultura dei cafoni che sono trascurati in tutti i settori, anche per quanto concerne l’insegnamento scolastico. I poveri fontamaresi non conoscono la lingua parlata dai cittadini, essi usano la propria lingua locale, il contadino appare così straniero nella sua patria. ''A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l'esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo d'agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci" [34] Far parlare i cafoni in italiano, che per i fontamaresi e' una lingua straniera che non ha a che fare con la loro vita di tutti i giorni, sarebbe, secondo Silone, un voler tradire la loro realtà poiché ciò significherebbe storpiare il loro pensiero. '' La lingua italiana nel ricevere e formulare i nostri pensieri non può fare a meno di storpiarli, di corromperli, di dare a essi l’apparenza di una traduzione. Ma, per esprimersi direttamente, l’uomo non dovrebbe tradurre. Se è vero che per esprimersi bene in una lingua, bisogna prima imparare a pensare in essa, lo sforzo che a noi costa il parlare in questo italiano significa evidentemente che noi non sappiamo pensare in esso'' [35] Il romanziere abruzzese si sente costretto a trasmettere la storia dei cafoni al lettore mediante una lingua colta, non quella usata dai suoi tre narratori di Fontamara. Siccome l’autore egli é dunque costretto a tradurre in italiano ciò che i tre cafoni rifugiati gli raccontano in dialetto, Silone scrive: “Tuttavia, se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. È un’arte fontamarese. [...] Non c’è una differenza tra questa arte del raccontare, tra questa arte di mettere una parola dopo l’altra, una riga dopo l’altra, una frase dopo l’altra, una figura dopo l’altra, di spiegare una cosa per volta, senza allusioni, senza sottintesi, chiamando pane il pane e vino il vino, e l’antica arte di tessere, l’antica arte di mettere un filo dopo l’altro, un colore dopo l’altro, pulitamente, ordinatamente, insistentemente, chiaramente.[...] Ma, abbiamo noi mai cercato di venderli in città ? Abbiamo mai chiesto ai cittadini di raccontare i fatti loro a modo nostro ? Non l’abbiamo mai chiesto. Si lasci dunque a ognuno di raccontare i fatti suoi a modo suo.”[36] La prefazione è dunque di grande importanza per capire l’intera opera, oltre a precisare la lingua usata nel racconto, l’autore chiarisce anche lo stile adoperato nel racconto. Infatti, se la trama è narrata in lingua colta e ufficiale, cioè la lingua dei cittadini, lo stile oppure il modo di raccontare è invece quello dei cafoni.
Il romanzo è scritto in uno stile semplice, le parole e le espressioni usate sono chiare e alla portata di tutti i lettori. Per Silone il problema della lingua riveste una grande inmportanza, ha un valore determinante: consapevole di assolvere a un impegno di carattere sociale prima che letterario, Silone sa che tale impegno investe soprattutto il linguaggio, cioé il suo modo di raccontare, che deve essere quello della sua gente anche se la lingua di scrittura è presa in prestito, questo significa che egli si sente il dovere di trasmettere liberamente i fatti di fontamara nel modo di raccontare con cui i fontamaresi si esprimono. Il lessico in '' Fontamara'' Colloquialità In effetti attraverso l’interpretazione e la mimisi del dramma sociale dei contadini meridionali, Silone vuole trasmettere un messaggio universale a tutta l’umanità, perciò, egli usa un linguaggio narrativo semplice che si adatta all’argomento affrontato. Silone utilizza in " Fontamara" un linguaggio popolare, colloqiale che non è dialetto, ma una sorta di traduzione in italiano, ovviamente per rendere l'opera comprensibile ad un più vasto pubblico, cercando comunque di non perdere l'atmosfera della vita e dei discorsi dei contadini; imprime infatti all'italiano quel colorito abruzzese attraverso lo stile o "maniera di raccontare" che è dei cafoni ma anche propria. Come egli stesso sottolinea nella premessa al romanzo: ''A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l'esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo d'agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci" [37] Le citazioni proverbiali sintetizzano le riflessioni e le convinzioni che quella gente non avrebbe saputo esprimere diversamente (ad esempio: "Aiutati che Dio ti aiuta") 38]. Solo nei discorsi dei "galantuomini", nel romazo chiamati " I cittadini", si ritrovano parole ricercate, a volte anche in latino, utilizzate proprio per ingannare i cafoni e per evidenziare il distacco che c'è fra le due classi sociali. Registri La scelta lessicale è assai significativa nel romanzo: solo un registro basso e colloquiale avrebbe potuto rappresentare al meglio l'universo dei cafoni di Fontamara. Il romanzo è pieno di espressioni tratte prevalentemente dall'uso quotidiano, popolare, dialettale, in taluni casi basso e volgare; vengono infatti utilizzate parole come ''cretino'', ''spidocchiarsi'', ''scialarsela'' e a volte incontriamo addirittura vocaboli storpiati non presenti sul vocabolario come ''timidità'', ''accorciatoia'',''canesca''. Qua e là si possono cogliere anche forme totalmente sgrammaticate e periodi in cui non vengono affatto rispettate le regole grammaticali, come ad esempio: ''Un signore intanto ci si avvicinò, che da qualche tempo avevamo notato che ci seguiva''[39] (periodo in cui il relativo non è preceduto dal termine a cui si riferisce). ''Attorno al pezzo di tratturo che l'Impresario si era gratuitamente appropriato”. (invece del''che'' avremmo dovuto avere il relativo''di cui''). ''Marietta era lì, sulla soglia della cantina, ostruendo la porta della cantina con la sua gravidanza.''. (qui la parola ''cantina'' è usata due volte anche se questo costituisce una ripetizione). ''Ci avete delle regalie?'' (frase in cui il''ci'' ha solamente un valore pleonastico). Particolarità lessicali: Si riscontra nel linguaggio popolare dei narratori anche l'uso tipicamente meridionale di troncare i nomi propri: Giovanni diventa Giuvà, Maddalena, Matalè Damiano Damià, Berardo Berà. Lo scrittore intende così annullare al massimo, nel testo, la sua presenza di uomo di cultura, per rappresentare ed esprimere al meglio possibile il mondo della gente più umile. A volte troviamo però anche parole del linguaggio tipicamente colto (mutismo, costernazione, trasecolato, resipiscenza), di cui forse i Fontamaresi conoscono a malapena il significato e che spesso finiscono per stridere con il resto dei vocaboli che vengono utilizzati in tutto il romanzo. Altro elemento che finisce per essere in contrasto con il modo di esprimersi fontamarese è senz’altro il latino, il cui uso è limitato al solo ambito ecclesiastico. Il periodo è costruito di frasi brevi coordinate fra loro per paratassi. Le rare subordinate non appesantiscono il discorso, che risulta molto scorrevole, di facile leggibilità, dato che deriva da discorsi di un basso registro, cioe' quello dei cafoni. La struttura dei periodi risulta, dunque, a volte, semplificata al massimo, tanto che si ha spesso una lunga successione di brevissimi periodi senza neppure il verbo separati fra loro dal punto fermo. ''Poi firmò Ponzio Pilato, che era vicino a me. Poi Zompa. Poi Marietta. E gli altri? Come interrogarli?''[40] Molto evidente è anche il frequente ricorso ai numerosi proverbi della saggezza popolare, che sembrano adattarsi a tutte le situazioni vissute dai Fontamaresi: ''La morte dell'asino se la piange il padrone'', '' Chi ha mangiato la pecora, adesso vomita la lana'', ''Albero spesso trapiantato mai di frutti è carico ''[41]. Tipologia discorsiva in '' Fontamara'' Problematica del discorso diretto: In '' Fontamara '' si ha l’alternanza di tre narratori di primo grado, tutti di origine fontamarese: Giovanni, il padre, Maddalena, la moglie, e il loro figlio. I tre personaggi si cedono la parola molto spesso (negli ultimi capitoli si passa da un narratore all'altro dopo solo poche righe) poiché ognuno di loro racconta soltanto avvenimenti di cui è stato partecipe e tesitmone in prima persona, giudicando, commentando e riflettendo sui casi narrati. Lo scambio di voci viene segnalato da una riga bianca posta fra i paragrafi o coincide con la fine di un capitolo e l'inizio di un altro. Tuttavia, a volte, è il narratore stesso a comunicarci quando ha intenzione di dare spazio all'altro come ad esempio: ''Il resto, se vuole, può raccontarvelo mio marito''[42] Visto l'ampio uso che l'autore fa del discorso diretto, accade che i narratori di primo grado introducano spesso nel racconto altri personaggi che compiono l'atto di raccontare. Nel romanzo compaiono dunque molti narratori di secondo grado; ma non è raro che un narratore di secondo grado ceda la parola a un altro personaggio che racconta una storia, e costui a un altro ancora, e così di seguito. Nel settimo capitolo prende parola addirittura un narratore di quarto grado! Infatti il narratore di primo grado Giovanni, tramite il discorso diretto, rende narratore di secondo grado lo scarparo Baldissera; questo cita testualmente le parole di Donna Clorinda, la quale, divenuta narratrice di terzo grado, riporta quanto dettole da Sant'Antonio, che riveste così il ruolo di narratore di quarto grado. La focalizzazione è prevalentemente interna, in quanto i personaggi possono descrivere solo ciò che hanno personalmente sentito, visto e vissuto, colorito con quel linguaggio proprio del cafone abruzese. Ma a volte l'autore sceglie il punto di vista di tutta la comunità di Fontamara, adottando così la focalizzazione corale. I cafoni sono talmente concordi nella condanna dei soprusi che vengono operati a loro danno che spesso la voce di un unico personaggio basta da sola a esprimere le opinioni di un intero paese. Un caso di focalizzazione corale si ha nel sesto capitolo, quando le voci di sdegno di tutti i Fontamaresi si levano unanimi contro i malfattori che li stanno depredando dell’acqua. Nel romanzo l'autore preferisce riprodurre testualmente quanto detto dai personaggi. Predilige infatti l'uso del discorso diretto, grazie al quale la pagina assume un'impressione di spontaneità e immediatezza. Evita il ricorso al discorso indiretto, che viene utilizzato solo per riferire le brevi frasi pronunciate da personaggi di assai scarsa importanza, che fungono quasi da comparsa (come i carabinieri di Avezzano e le camicie nere). Inoltre spesso egli sostituisce al discorso indiretto il discorso indiretto libero, la cui mancanza di verbi dichiarativi e dei nessi introduttivi rispecchia il modo di parlare semplice dei contadini. Il discorso indiretto libero viene impiegato, ad esempio, per riportare i tanti dubbi che Berardo manifesta ai suoi compagni di cella: "La Russia? Dimmi la verità:esiste veramente questa Russia di cui tanto si parla? Tu_i ne parlano, ma nessuno c’è mai stato.Eppure I cafoni vanno dappertu_o, in America, in Africa, in Francia.Ma nessuno è mai stato in Russia.".[43] Di frequente l’autore si avvale anche del soliloquio per riportare le parole che un personaggio rivolge a se stesso, quando parla tra sé e sé. Lunghi e angosciosi sono i soliloqui dei Fontamaresi, in particolare le meditazioni notturne in prigione di Berardo, che rimane sveglio pensando a cosa avrebbe dovuto fare della sua vita. Per esprimere al meglio la confusione che regna nelle menti stravolte dei Fontamaresi, vengono usati anche i flussi di coscienza, con cui si riproduce il libero e disordinato accavallarsi dei pensieri nella mente di un personaggio. Si hanno flussi di coscienza ogni volta che i poveri contadini tentano di spiegarsi il perché dei tanti strani fatti che stanno avvenendo: non riescono a capire come possa l'Impresario pretendere di mettere le mani su un tratturo, non si spiegano perché le banche dovrebbero interessarsi delle numerose attività portate avanti da quest'ultimo. Nel romanzo si possono anche trovare diversi discorsi raccontati. In essi il narratore riassume a grandi linee le conversazioni dei Fontamaresi, adottando il loro modo di parlare e di esprimersi in un linguaggio semplice e proprio dei contadini, in quanto gli argomenti di questi discorsi sono sempre gli stessi: la scarsezza dei raccolti, l’insufficienza dell’acqua e le nuove tasse. Come ho già detto, anche se Fontamara è scritto in italiano, tuttavia la lingua usata si adatta alla povera gente di cui si parla nel libro; ci troviamo, così, di fronte ad un linguaggio semplice e umile, ricco di modi di dire e di frasi ripetute perché sentite dire da altri, come '' L'Impresario ha scoperto l'America!''[44] ripetuta dalla narratrice Matalè che probabilmente non sa nemmeno che cosa sia l'America. Citazioni [1] Silone, Ignazio, ''Uscita di sicurezza'', Firenze, Vallecchi Editore, 1965, pp. 68 – 69. [2] Ivi, p. 64. [3] Ivi, pp. 79 – 80. [4] Uscita di sicurezza, op.cit., p. 69. [5] Ivi, p. 167. [6]Uscita di sicurezza, op.cit., p . 65. [7]Giuliana, Rigobello, ''Introduzione e guida allo studio dell'opera silioniana'', Firenze, Editore Le Monnier, 1981, pp. 57 – 59. [8]Dardano, M. &Trifone , P., "La lingua italiana", Bologna, Zanichelli Editore, 1996, pp. 411 – 413. [9]Marchese, Angelo, "Dizionario di retorica e di stilistica", Milano, Mondadori Editore, 1985, p. 155. [10] Ibidem. [11] Cfr Sabatini, Francesco, "La comunicazione e gli usi della lingua", Torino, Loscher editore, 1991, p. 86. [12]Garavelli, Bice , "Il parlar figurato", Roma – Bari, Laterza Editore, 2010, pp. 45 – 47. [13]Marabini, C., "Introduzione a Fontamara", Milano, Mondadori Editore, 1970, p. 5. [14] Silone, Ignazio, "Fontamara", Milano., Mondadori Editore, 1949, p. 37. [15] Ivi, p. 39. [16] Garavelli, Bice, op. cit., pp. 45 – 46. [17] Silone, Ignazio, op. cit., pp. 41- 42 [18]Silone, Ignazio, Fontamara, op. Cit., p. 45. [19] Cfr. Rigobello, Giuliana, op. cit., p. 191. [20] Silone, Ignazio , Fontamara, op. Cit., pp. 45 - 46. [21] D'Eramo, Luce, "L'opera di Ignazio Silone", Milano, Mondadori Editore., 1971. pp. 563 – 564. [22]Silone, Ignazio, Fontamara, op. cit., pp. 53 - 54. [23] Virdia, Ferdinando, "Silone", Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 41. [24] Silone, Ignazio , Fontamara, op. cit., pp. 74 – 75. [25]Silone, Ignazio , Fontamara, op. Cit., p. 144. [26] Garavelli, Bice, op. cit., p.79. [27] Rigobello, Giuliana, op. cit., p. 67. [28] Gavarelli, Bice, op. cit., p. 10. [29] Dardano, Maurizio – Trifone, Pietro, op. cit., p. 415 [30] Dardano, Maurizio – Trifone, Pietro, op. cit , p. 414. [31] Ivi, p. 417. [32] Dardano, Maurizio – Trifone, Pietro, op. cit., p. 416. [33] D'Eramo, Luce, "L'opera di Ignazio Silone", Milano, Mondadori Editore., 1971. pp.570. [34] Silone, Ignazio, prefazione di "Fontamara", Milano., Mondadori Editore, 1949. [35]Ibidem . [36] Ibidem. [37]Silone Ignazio, prefazione di "Fontamara", Milano., Mondadori Editore, 1949.
[38] Silone, Ignazio, "Fontamara", op.cit. p.97. [39]Silone, Ignazio, "Fontamara", op.cit. p. 88. [40] Silone, Ignazio, "Fontamara", op.cit. p.109. [41] Ivi., p. 133 [42]Ivi., p.88 [43] Silone Ignazio, Fontamara, op. cit., p. 196. [44] Ignazio, Silone, "Fontamara", op.cit. p.75
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References | ||||
Bibliografia
1 - AA. VV., "Per i 70 anni di Ignazio Silone", in ''Il Dramma", 1970.
2 - AA. VV., "Ignazio Silone", in "Oggi e domani", 1974.
3- Bocelli A., "Itinerario di Ignazio Silone", in "Nuova Antologia", 1966.
4- Arone Vincenzo, "Ignazio Silone", Roma, Edizione dell'Ateneo, 1980.
5- Annoni C., "Invito alla lettura di Silone", Milano, Mursia, 1974.
6 - Dardano M. & Trifone P., "La lingua italiana", Bologna, Zanichelli Editore, 1996.
7 - Cassata M. L., "Gli uomini di Ignazio Silone", Gubbio, Oderisi Editore, 1967.
8 - AA. VV., "Ignazio Silone a sei mesi dalla morte", in "Prospettive del mondo" , 1979.
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Sitografia
1 - www.inftub.com > letteratura – italiana.
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